
Il mio Jacovitti
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Era la fine degli anni ’70, avevo circa dieci anni e nel patronato (centro parrocchiale) della chiesa di San Pietro Martire di Murano si teneva un evento. In quei luoghi ogni estate già si teneva la festa campestre nel campo da calcio da canicola (chiamato così perché i tornei si giocavano nel periodo più caldo dell’anno) e le attrazioni non mancavano: comprando dei biglietti a poche lire avevi la possibilità di vincere piante, pesciolini, giocattoli, farti leggere la mano da una sedicente medium, etc. insomma una vera e propria fiera di paese.
Questo evento però era diverso, era la prima volta che vedevo banchi e gazebo che esponevano e vendevano prodotti di vario genere e quello che più mi colpì fu quello dei libri che era posizionato nel corridoio di fronte alla mitica sala Pio X (le feste di compleanno più belle si tenevano lì). Tanti libri tutti assieme non li avevo mai visti, tante dimensioni e spessori, tanti colori, tante immagini di copertina diverse, tanti titoli scritti con caratteri che non credevo possibile esistessero (all’epoca conoscevo solo stampatello e corsivo minuscolo e maiuscolo di Times o Helvetica, per capirci A come Ape, B come Barca, C come Cane). Erano suddivisi per tematica e la sezione che più mi coinvolgeva era sicuramente quella del fumetto. Anche qui molte copertine colorate e volti familiari come quello di Topolino e di Paperino o l’aura misteriosa di Macchia nera, la flessibilità di Tiramolla e la simpatia di Felix il Gatto, i quali mi invitavano ad ammirarli in tutto il loro splendore.
Il libro però che più mi colpì era quello più grande, in copertina aveva due uccelli, uno con parruccone e calze a righe e l’altro con il cappello che sostenevano il peso di una strana scritta rossa: Jacovitti. Era indubbiamente diverso da tutti gli altri, sfogliandolo rimasi incantato nel vedere la ricchezza delle tavole, e le parole scritte sembravano prendere vita. C’erano vignette sparse ovunque, storie complete e tavole traboccanti di situazioni assurde e divertenti, uomini nasoni e donne pettorute, salami sparsi qui e là e lische di pesce.
Era un libro ipnotico, dovevo averlo!
Corsi subito da mia madre e mio padre e dissi loro che volevo compare un libro. A loro non parve vero sentire quelle parole pronunciate dal figlio meno propenso allo studio e, dopo una veloce consultazione, mio padre tirò fuori dal portafoglio diecimila lire e dandomele mi disse di portargli il resto pensando che avrei comprato un romanzo di avventura per ragazzi e quindi avrei speso tra le due e le quattromila lire al massimo. Corsi nuovamente al banco dei libri più velocemente possibile e tutto trafelato indicai il libro che poco prima avevo sfogliato e la signora (probabilmente era una ragazza di venticinque anni ma io la vedevo molto adulta) sorridendo me lo diede e mi disse: «sono diecimila lire». Io senza fiatare le diedi la banconota che poco prima mi era stata consegnata e tutto vittorioso e gongolante tornai dai miei genitori con il tomo che pesava più di me tra le braccia.
Inutile dirvi che furono lievemente delusi per il mancato resto ma che dopo avermi visto piangere si convinsero a non farmi restituire quel libro. Per la prima volta mi scontrai con il valore delle cose e capii che la fatica del lavoro di mio padre si era trasformata in un libro di fumetti; l’altra cosa che accadde è che quel libro (che nell’arco degli anni ho letteralmente consumato) diede il “la” ad una serie di eventi che mi hanno portato a fare il lavoro che faccio, e da quel giorno cominciai a percepire che la mia abilità nel disegnare poteva svilupparsi e diventare qualcosa di più che un semplice passatempo.